Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge rappresenta un provvedimento che può efficacemente e seriamente aiutare ad affrontare il grande tema dell'esclusione digitale. Un tema spesso dimenticato, ma che rappresenta invece uno dei più importanti oggetti di riflessione e di azione per la costruzione di un mondo migliore.
      Accesso alle nuove tecnologie oggi vuol dire - e domani vorrà dire ancora di più - democrazia e sviluppo economico, inclusione sociale, nuovo motore per una democrazia mondiale dei popoli, in sintesi uguaglianza e sviluppo sostenibile.
      Meno dell'1 per cento della popolazione africana e asiatica (Giappone escluso) ha accesso alla rete telematica. Nella sola New York ci sono più accessi che in tutta l'Africa. Il 15 per cento della popolazione mondiale, quella dei Paesi ricchi, utilizza oltre la metà delle linee telefoniche fisse e il 70 per cento circa di quelle mobili. Il 60 per cento circa della popolazione mondiale, quella dei Paesi in via di sviluppo, utilizza solo poco più del 5 per cento delle connessioni INTERNET mondiali. Nel 2000, dei 94 milioni di provider INTERNET esistenti al mondo, il 95,6 per cento era ubicato nei Paesi ricchi, del 4,4 per cento rimanente la maggior parte erano installati a Singapore, Hong Kong e Israele.
      Eppure ormai molti sono consapevoli che nell'era della cosiddetta «rivoluzione digitale» - citiamo un documento scritto dalle maggiori organizzazioni non governative (ONG) italiane (tra cui Alisei, Cies, Movimondo, Asal, Africa e Mediterraneo eccetera) - il gap tra chi ha e non ha, tra chi sa e chi non sa sarà sempre più l'ago della bilancia per lo sviluppo. Chi oggi, uomo, donna, lavoratore, popolo non può avere accesso alla rete e alle nuove tecnologie è condannato alla dipendenza, allo sfruttamento, alla tirannia dei saperi e

 

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delle informazioni. È condannato ad avere un «non futuro».
      Dovrebbe essere allora interesse generale, tanto del nostro Paese che della comunità internazionale, avviare una politica sistematica, realmente efficace per ridurre e superare il digital divide, quella frattura utile solo ad un sistema politico ed economico instabile, con un nord ricco, sempre più ricco, e un sud povero, sempre più povero.
      Per noi tutto ciò non è tollerabile, perché la solidarietà, la vita, l'uguaglianza, la democrazia non sono variabili dipendenti, non sono una delle tante merci di una globalizzazione che, innervandosi proprio sulle mille reti che avvolgono il pianeta, è oggi sempre più globalizzazione della finanza e dell'economia e non dei diritti.
      Una globalizzazione della sola economia che ha già dato una sua risposta alla frattura tecnologica: maggiore dipendenza, maggiore sfruttamento simbolico e dei patrimoni culturali locali o, se va bene, un po' di carità, qualche computer in più in un contesto assai più complicato e articolato. Una carità poi assai curiosa, che trasforma al massimo i Paesi in via di sviluppo in tanti piccoli mercati, dove piazzare magari quelle tecnologie che in occidente sono già superate. Non può essere allora la sola logica del mercato e del profitto, spesso anche più attenta all'immediato che non al futuro, a dettare le regole del gioco.
      Proprio questo principio, questa logica, inutile negarlo, insieme ad una scarsità di risorse, è stata finora la politica portata avanti (o se vogliamo non portata affatto) dai Paesi ricchi.
      Noi crediamo occorra fare di più, prima di tutto stabilendo un principio generale di solidarietà e di redistribuzione in grado di destinare parte della ricchezza che la stessa digital economy genera, proprio per diffonderla in termini più giusti, più democratici in tutto il mondo. Per questo proponiamo che una quota fissa dei guadagni delle imprese delle telecomunicazioni vada automaticamente destinata alla specifica lotta contro il digital divide. Una sorta di nuova Tobin tax se vogliamo, ma diversa concettualmente per origine delle risorse e soprattutto per specificità di intervento. Preferiamo chiamarla «Digital income», reddito digitale; un reddito non per noi, non direttamente, ma per gli altri. Una tassazione che, non casualmente, o comunque non per amore verso un appesantimento delle pratiche burocratiche, abbiamo voluto assumesse la forma, se vogliamo, di «donazione obbligatoria» ovvero di contro partita, comunque (almeno transitoriamente) non troppo sconveniente per le stesse imprese delle telecomunicazioni, che operano in Italia tramite comunque concessioni, licenze o riconoscimenti pubblici.
      Ma significativo, crediamo, è anche lo strumento che abbiamo pensato, nel merito e nel metodo.
      Nel merito perché riteniamo il digital divide superabile, anche nel senso di non dipendenza dei Paesi in via di sviluppo da altri Paesi o da multinazionali occidentali, attraverso interventi specifici legati tanto alla diffusione degli accessi alla rete per tutti, quanto alla creazione di un sistema integrato con le diverse realtà tradizionali locali in grado di garantire la valorizzazione delle diverse culture, nonché lo sviluppo di filiere industriali locali (ovviamente in maniera graduale) ad alto valore qualitativo, in grado, anche attraverso sostegni ad hoc alla ricerca e alla diffusione di free software e di open source, di generare circuiti virtuosi e autonomi (pensiamo per esempio al computer Simpa lanciato in India, poco costoso e utilizzabile anche da analfabeti) che evitino anche forme di obsolescenza tecnologica e quindi di nuova dipendenza (pensiamo per esempio all'evoluzione dell'industria dei microchip che ogni due-tre anni tende a rivoluzionarsi).
      Interventi che puntano a garantire tutte le potenzialità non solo economiche, ma anche e soprattutto sociali e di democrazia, non solo diffondendo gli accessi, ma anche e soprattutto i saperi, i linguaggi, le conoscenze critiche essenziali per sviluppare protagonismo e partecipazione. È importante infatti garantire che la diffusione dell'information and communication
 

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technology
(ICT) non comporti la creazione di nuove esclusioni e che tenga conto delle modalità e dei tempi per lo sviluppo locale e culturale.
      Non meno importante è il ruolo che la proposta di legge assegna alle realtà dell'associazionismo e della cooperazione. E qui siamo al metodo. Questo non solo per la convinzione che le diverse ONG sono impegnate da anni sul campo, attraverso i loro progetti e lavorando a stretto contatto con la popolazione e con le autorità locali, ma anche alla luce di un lavoro, a dire il vero poco conosciuto ma assai meritorio, che ha visto già avviati programmi di alfabetizzazione tra le diverse popolazioni. Per noi le diverse organizzazioni non sono quindi partner come altri e, anzi, la proposta di legge punta proprio a ridurre espressamente le asimmetrie di potere che spesso vedono le organizzazioni soccombere di fronte agli interessi di qualche impresa intenzionata a svuotare solamente i propri magazzini, e talmente miope da non vedere, nello stesso sviluppo di una società dell'informazione africana o asiatica o sud americana, nuove e più importanti occasioni anche di sviluppo economico e produttivo. L'istituzione di una cabina di regia dove prevalente sia la presenza di realtà associative è quindi tutt'uno con l'idea di riduzione del digital divide e un esempio che spero il nostro Paese e, come suo organo rappresentativo, il Parlamento, approvando la proposta di legge, può dare al resto della comunità internazionale, in termini di maggiore democrazia e di maggiore solidarietà.
 

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